Compie oggi 80 anni Porgy and Bess di George Gershwin. Era il 30 settembre 1935 quando fu rappresentata per la prima volta al Teatro Colonial di Boston. Chi ha un po’ di tempo può godere di questa bella versione:
Compie oggi 80 anni Porgy and Bess di George Gershwin. Era il 30 settembre 1935 quando fu rappresentata per la prima volta al Teatro Colonial di Boston. Chi ha un po’ di tempo può godere di questa bella versione:
Enzo Restagno
Mi scuso se torno sull’argomento MITO, che in senso stretto interessa soprattutto torinesi e milanesi, ma in senso più largo un po’ tutti in quanto può essere indicativo dello stato di salute dell’organizzazione odierna della musica classica in Italia. Doveroso poi, credo, riportare, dopo alcune esternazioni di Sindaco e Assessore alla Cultura di Torino, le argomentazioni di Colui che del Festival è stato il punto assoluto di riferimento da trent’anni a questa parte. Per cui riporto integralmente l’intervista a Enzo Restagno della rivista Amadeus.
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Sulla decisione di lasciare la direzione artistica di MiTo?
«La definirei una scelta di vita. Dopo trent’anni in cui sono stato direttore artistico e quaranta di insegnamento desidero dedicarmi con calma e serenità allo studio e alla scrittura di libri. Non sono stanco intellettualmente ma ho 74 anni e, arrivati a una certa età, si sente l’esigenza di puntare tutte le energie in una direzione».
Una sorta di desiderio di ritorno alle origini, quelle di studioso?
«Non proprio. Si tratta quasi di un fatto esistenziale. Sa, a vent’anni ci si sente immortali, a quaranta si ha tutta la vita davanti. Poi, si arriva a non avere più la sensazione di avere dinnanzi un tempo infinito. Arriva un momento in cui si guarda alla vita decidendo di viverla al meglio».
Bilancio di quest’ultima edizione?
«Il mio bilancio è certamente positivo ma non sono io a giudicare, è piuttosto la gente. Anche se io ho confezionato la torta, bisogna vedere se gli altri la mangiano volentieri. Comunque direi che le scelte sono state azzeccate nonostante i mezzi ridotti».
Tra le scelte che hanno destato grande interesse?
«Nell’edizione torinese, per esempio, le due opere, andate in scena al Teatro Regio, Akhnaten di Philip Glass e Il ragazzo del risciò scritta dal cinese Guo Wenjing sull’omonimo racconto di Lao She. Ma anche il trittico dedicato a Johann Sebastian Bach con l’Akademie für Alte Musik Berlin, le Passioni secondo Giovanni e Matteo e i Concerti per violino con Isabelle Faust. O ancora, ha suscitato grande entusiasmo La Mandragola di Machiavelli con le musiche di scena per essa composte nel 1518 da Philippe Verdelot».
Tanti anni di MiTo: cambierebbe qualcosa con il senno di poi?
«Nessuno è perfetto e tutto si potrebbe fare meglio, ma non penso a ciò che avrei potuto fare meglio, guardo a ciò che ho fatto. In trent’anni sono state tante le soddisfazioni e non solo per la riuscita di concerti o eventi ma perché ho fatto cose che hanno cambiato la mia vita. Ho conosciuto e proposto compositori come Luigi Nono, Luciano Berio, Elliott Carter, György Ligeti, Iannis Xenakis. Compositori oggi scomparsi che sono stati amici carissimi. Con loro ho conversato, su di loro ho scritto libri ma, soprattutto, da loro ho imparato a vedere la musica del passato con altri occhi. Loro mi hanno cambiato la vita».
Ci spieghi
«Per esempio, ho maturato un’attenzione particolare alla musica di realtà extra europee. Ho proposto musicisti del Tibet, Pigmei e della Repubblica centroafricana. Sono state grandi imprese di cui sono orgoglioso. Attraverso la proposta di musiche provenienti da culture altre, ho voluto contribuire a spezzare l’idea di eurocentrismo e trasmettere una visione della musica non egemonica. Le culture lontane sono motivo di grande fascino, proprio come aveva intuito Debussy. Ma ho anche fatto scoprire interpreti o compositori quando ancora non si sapeva chi fossero, come Sofia Gubaidulina e Steve Reich, e giovani talenti e bravi musicisti. Anche George Benjamin, talento straordinario che ho conosciuto giovanissimo».
Una visione della musica dagli ampi orizzonti, quindi?
«Certo, senza trascurare la tradizione. Ricordo un’indimenticabile Settima di Bruckner dei Wiener Philharmoniker diretti da Boulez, così come altre celebri orchestre sinfoniche. Credo nella necessità di un allargamento culturale; la musica classica tende all’autoconservazione, mostra spesso chiusura e conservatorismo, mentre occorre una più ampia visione. Il godimento della musica è un piacere di per sé incompleto. La musica rivela la sua potenza e la sua grandezza quando diviene approfondimento culturale e fornisce una visione del mondo. Una visione del mondo come suggerisce l’ascolto dei Quartetti di Beethoven, un travasare l’immagine in suono, in cui i principi morali diventano suono».
Qualità di un buon direttore artistico?
«Una curiosità inesausta. In tutti i mestieri subentra la routine. Come quella che nasce ogni qualvolta mi trovi a preparare una conferenza, anche se su argomenti già trattati e che conosco benissimo. Potrei procedere in automatico con quel che già so. Ma, talvolta, dinnanzi a qualcosa che non avevo visto, rinasce quella curiosità che mantiene vivo l’interesse».
Sull’attuale situazione della musica in Italia?
«L’Italia musicale è ridotta piuttosto male per la grave riduzione dei finanziamenti. In generale, è troppo poco ciò che si spende per musica, cultura e arte, in un Paese come il nostro caratterizzato da un’importante tradizione in questi settori. Faccio un esempio, il Festival Enescu di Bucarest propone un cartellone di imponenza ormai vicina a quella di Salisburgo. Ma la Romania è un Paese poverissimo rispetto all’Italia. Spesso assistiamo allo strapotere della politica, o vediamo persone non competenti che ricoprono ruoli di vertice. Certo, riscontro poco impegno nell’investimento culturale, senza considerare poi che in Germania o Svizzera a capo delle più importanti istituzioni musicali non troveremmo mai persone che non leggono neppure le note».
Soluzioni per avvicinare nuove fasce di pubblico?
«Quelle che io ho adottato sono state prezzi politici e concerti gratuiti, ma mi rendo conto di quanto sia più complesso per le istituzioni stabili. Penso che sia necessario portare la musica alle persone che a essa non si avvicinano mai. Spesso le stagioni musicali delle istituzioni più antiche e gloriose sono percepite quasi come club molto esclusivi o circuiti da cui ci si sente tagliati fuori. Come si sentirebbe un proletario a una festa sontuosa. Questo certamente intimorisce. Occorrono approcci diversi in luoghi diversi. Ricordo una Nona di Beethoven a Torino al Pala Isozaki: il biglietto d’ingresso era 3 euro, erano presenti 10000 persone. Molte delle quali uscirono da lì esterrefatte per la meravigliosa scoperta. Contribuire alla diffusione della musica è un dovere civico».
Come immagina il futuro di MiTo?
«Non posso immaginarlo. Penso sia nella testa dei politici di Torino e Milano che a breve si incontreranno per discutere una nuova strategia».
I suoi progetti futuri, invece?
«Continuare a scrivere e a studiare».
Cosa augura all’Italia musicale in genere?
«Vorrei che avesse buone scuole musicali, anche se diversi Conservatori funzionano bene. Ma occorrerebbe una presenza significativa della musica nelle scuole in genere. Non è possibile si terminino gli studi umanistici senza sapere nulla di Mozart e Bach. E mi auguro che il governo italiano mostri più attenzione alle istituzioni culturali, che proponga concorsi e continue verifiche. Il nostro è un capitale da accudire e lo facciamo poco nonostante siamo considerati uno tra i Paesi più evoluti». © Amadeus
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Alcune risposte sono illuminanti e vale davvero la pena di prenderle in considerazione.
Charles Münch
Nasceva 124 anni fa, il 26 settembre 1891 a Strasburgo Charles Münch. Vorrei ricordarlo con alcuni documenti attualmente presenti in Youtube (si spera che non vengano oscurati):
Queste prove con l’appena nata Orchestre de Paris, l’anno precedente la morte del grande Direttore:
E queste prove, solo audio, della VI di Ciaikovskij con la Boston Symphony risalenti al 19.12.1949:
e al 2.01.1950:
Spero che siano graditi a tutti coloro che ammirano, come me, il grandissimo Direttore.
Mentre in queste settimane si è scritto di future possibili “revisioni di formula” del Festival in oggetto, ecco che alla vigilia del termine giunge la notizia delle dimissioni di Enzo Restagno, direttore artistico dal 1986, e di Francesco Micheli, presidente del Comitato di coordinamento. Entrambi precisano che le dimissioni erano già decise da tempo e che i rapporti con le amministrazioni comunali di Torino e Milano sono sereni. Insomma honi soit qui mal y pense? o piuttosto “a pensar male si fa peccato, ma si indovina”? Fate voi: io sono “peccatore”. Intanto ecco l’annuncio su Repubblica:
Nel penultimo giorno dell’edizione 2015 terremoto ai vertici di MiTo, la rassegna di musica classica (e non solo) tra Torino e Milano che da nove anni contraddistingue il settembre delle due metropoli. Lo storico direttore artistico, Enzo Restagno, e Francesco Micheli, presidente del Comitato di coordinamento, l’anima milanese del festival, hanno rassegnato congiuntamente le dimissioni. Micheli è stato ideatore, di fatto organizzatore della parte ambrosiana della manifestazione e collettore di fondi. Con lui lasciano Francesca Colombo, factotum del festival, e lo stesso Restagno, da molti anni vera anima artistica della rassegna nata da Settembre Musica ed esportata in parallelo anche nel capoluogo lombardo.
Proprio Restagno tiene a scongiurare fin dall’inizio possibili dietrologie sulla sua rinuncia: “Non c’è nessun motivo particolare, dopo 30 anni di direzione di Settembre Musica, di cui 9 di MiTo, a 74 anni di età ho deciso che era il momento di fare altro. Nei prossimi mesi mi trasferirò a Parigi per studiare alla Biblioteca Nazionale e dedicarmi esclusivamente ai miei libri. I miei rapporti con i sindaci di Torino e Milano e con gli assessori sono ottimi, così come con tutta la squadra. E’ una decisione che avevo già maturato mesi fa, ma ho deciso di aspettare per non turbare il festival che è andato molto bene. Dietro le dimissioni c’è sempre il sospetto che si celi altro. Posso dire che in questo caso non è così. Una scelta personale, dopo 30 anni a Settembre Musica e 40 come professore al Conservatorio. A 74 anni, visto che la salute per ora mi assiste, voglio aprire una fase nuova della mia vita”.
Una dichiarazione che però non modifica il quadro critico intorno alla rassegna organizzata a cavallo tra Torino e Milano, che da qualche tempo mostra limiti, stanchezze e scricchiolii. Che la formula dell’alleanza si dovesse rivedere era nell’aria, ma la scelta di Micheli e Restagno accelera le cose. Ora la palla passa ai sindaci Piero Fassino e Giuliano Pisapia. Il primo cerca di sdrammatizzare: “Non ci sono scossoni perché questo ricambio era annunciato e MiTo continua anche forte dei successi di questi anni”. “Restagno – ha aggiunto Fassino – aveva preannunciato che con questa edizione di MiTo considerava conclusa la sua esperienza alla direzione del festival ritenendo di orientare la sua attività in altre direzioni, così come Micheli aveva fatto sapere che altri impegni lo avrebbero portato a lasciare la presidenza”.
“Per quanto ci riguarda non possiamo che esprimere gratitudine per l’attività svolta in questi anni da entrambi che sono stati motori di ogni edizione di Mito e protagonisti della sua crescita e del suo successo – ha proseguito Fassino – insieme a loro, al sindaco Pisapia, agli assessori Braccialarghe e Del Corno valuteremo come far corso alla successione fermo restando che Mito si è affermato come un grande evento internazionale di musica e dunque vi è l’impegno per proseguire in questa direzione”. © La Repubblica
Tra gli appuntamenti imperdibili di questo nono (e ultimo?) MITO c’erano certamente le due Passioni di J.S.Bach affidate a René Jacobs con l’Akademie für Alte Musik Berlin e il RIAS Kammerchor.
Un momento della Passione secondo Matteo all’Auditorium del Lingotto © MITO/ M.Boero
Solisti di altissimo livello: dall’ottimo Evangelista di Werner Güra,
Werner Güra nel ruolo dell’Evangelista © MITO
alla splendida Sunhae Im, soprano nelle arie delle due Passioni,
Sunhae Im nella Johannes-Passion © MITO
al tenore Sebastian Kohlhepp, solista nelle arie,
Sebastian Kohlhepp nella Matthäus-Passion © MITO/M.Boero
a Sophie Harmsen, mezzosoprano nelle arie della Johannes-Passion,
Sophie Harmsen nella Johannes-Passion ©MITO
a Kristina Hammarstöm, mezzosoprano nella Matthäus-Passion,
Kristina Hammarström
al basso Konstantin Wolff
Konstantin Wolff ©MITO
cui è doveroso aggiungere i bassi Arttu Kataja e Andrè Schuen nel ruolo di Cristo nella Johannes (il primo) e nella Matthäus (il secondo) più alcune prime parti del Coro in ruoli vari. Su tutti poi lui:
René Jacobs ©MITO/M.Boero
René Jacobs, uno dei più attendibili interpreti di questo repertorio. Siamo ai vertici della prassi esecutiva e interpretativa: una vera gioia per il pubblico accorso numeroso, ma non come mi sarei aspettato, soprattutto alla Johannes-Passion (a Torino), in cui la sala evidenziava interi settori (la galleria, ultime file della platea, coro) semideserti. Peccato, anche perché viste le minacce dei “revisori di formula” in futuro ci dovrà forse accontentare di produzioni autarchiche, rispettabili sicuramente, ma distanti qualitativamente anni luce da queste. È la qualità che fa la differenza: chi se ne intende lo capisce.