
Enzo Restagno
Mi scuso se torno sull’argomento MITO, che in senso stretto interessa soprattutto torinesi e milanesi, ma in senso più largo un po’ tutti in quanto può essere indicativo dello stato di salute dell’organizzazione odierna della musica classica in Italia. Doveroso poi, credo, riportare, dopo alcune esternazioni di Sindaco e Assessore alla Cultura di Torino, le argomentazioni di Colui che del Festival è stato il punto assoluto di riferimento da trent’anni a questa parte. Per cui riporto integralmente l’intervista a Enzo Restagno della rivista Amadeus.
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Sulla decisione di lasciare la direzione artistica di MiTo?
«La definirei una scelta di vita. Dopo trent’anni in cui sono stato direttore artistico e quaranta di insegnamento desidero dedicarmi con calma e serenità allo studio e alla scrittura di libri. Non sono stanco intellettualmente ma ho 74 anni e, arrivati a una certa età, si sente l’esigenza di puntare tutte le energie in una direzione».
Una sorta di desiderio di ritorno alle origini, quelle di studioso?
«Non proprio. Si tratta quasi di un fatto esistenziale. Sa, a vent’anni ci si sente immortali, a quaranta si ha tutta la vita davanti. Poi, si arriva a non avere più la sensazione di avere dinnanzi un tempo infinito. Arriva un momento in cui si guarda alla vita decidendo di viverla al meglio».
Bilancio di quest’ultima edizione?
«Il mio bilancio è certamente positivo ma non sono io a giudicare, è piuttosto la gente. Anche se io ho confezionato la torta, bisogna vedere se gli altri la mangiano volentieri. Comunque direi che le scelte sono state azzeccate nonostante i mezzi ridotti».
Tra le scelte che hanno destato grande interesse?
«Nell’edizione torinese, per esempio, le due opere, andate in scena al Teatro Regio, Akhnaten di Philip Glass e Il ragazzo del risciò scritta dal cinese Guo Wenjing sull’omonimo racconto di Lao She. Ma anche il trittico dedicato a Johann Sebastian Bach con l’Akademie für Alte Musik Berlin, le Passioni secondo Giovanni e Matteo e i Concerti per violino con Isabelle Faust. O ancora, ha suscitato grande entusiasmo La Mandragola di Machiavelli con le musiche di scena per essa composte nel 1518 da Philippe Verdelot».
Tanti anni di MiTo: cambierebbe qualcosa con il senno di poi?
«Nessuno è perfetto e tutto si potrebbe fare meglio, ma non penso a ciò che avrei potuto fare meglio, guardo a ciò che ho fatto. In trent’anni sono state tante le soddisfazioni e non solo per la riuscita di concerti o eventi ma perché ho fatto cose che hanno cambiato la mia vita. Ho conosciuto e proposto compositori come Luigi Nono, Luciano Berio, Elliott Carter, György Ligeti, Iannis Xenakis. Compositori oggi scomparsi che sono stati amici carissimi. Con loro ho conversato, su di loro ho scritto libri ma, soprattutto, da loro ho imparato a vedere la musica del passato con altri occhi. Loro mi hanno cambiato la vita».
Ci spieghi
«Per esempio, ho maturato un’attenzione particolare alla musica di realtà extra europee. Ho proposto musicisti del Tibet, Pigmei e della Repubblica centroafricana. Sono state grandi imprese di cui sono orgoglioso. Attraverso la proposta di musiche provenienti da culture altre, ho voluto contribuire a spezzare l’idea di eurocentrismo e trasmettere una visione della musica non egemonica. Le culture lontane sono motivo di grande fascino, proprio come aveva intuito Debussy. Ma ho anche fatto scoprire interpreti o compositori quando ancora non si sapeva chi fossero, come Sofia Gubaidulina e Steve Reich, e giovani talenti e bravi musicisti. Anche George Benjamin, talento straordinario che ho conosciuto giovanissimo».
Una visione della musica dagli ampi orizzonti, quindi?
«Certo, senza trascurare la tradizione. Ricordo un’indimenticabile Settima di Bruckner dei Wiener Philharmoniker diretti da Boulez, così come altre celebri orchestre sinfoniche. Credo nella necessità di un allargamento culturale; la musica classica tende all’autoconservazione, mostra spesso chiusura e conservatorismo, mentre occorre una più ampia visione. Il godimento della musica è un piacere di per sé incompleto. La musica rivela la sua potenza e la sua grandezza quando diviene approfondimento culturale e fornisce una visione del mondo. Una visione del mondo come suggerisce l’ascolto dei Quartetti di Beethoven, un travasare l’immagine in suono, in cui i principi morali diventano suono».
Qualità di un buon direttore artistico?
«Una curiosità inesausta. In tutti i mestieri subentra la routine. Come quella che nasce ogni qualvolta mi trovi a preparare una conferenza, anche se su argomenti già trattati e che conosco benissimo. Potrei procedere in automatico con quel che già so. Ma, talvolta, dinnanzi a qualcosa che non avevo visto, rinasce quella curiosità che mantiene vivo l’interesse».
Sull’attuale situazione della musica in Italia?
«L’Italia musicale è ridotta piuttosto male per la grave riduzione dei finanziamenti. In generale, è troppo poco ciò che si spende per musica, cultura e arte, in un Paese come il nostro caratterizzato da un’importante tradizione in questi settori. Faccio un esempio, il Festival Enescu di Bucarest propone un cartellone di imponenza ormai vicina a quella di Salisburgo. Ma la Romania è un Paese poverissimo rispetto all’Italia. Spesso assistiamo allo strapotere della politica, o vediamo persone non competenti che ricoprono ruoli di vertice. Certo, riscontro poco impegno nell’investimento culturale, senza considerare poi che in Germania o Svizzera a capo delle più importanti istituzioni musicali non troveremmo mai persone che non leggono neppure le note».
Soluzioni per avvicinare nuove fasce di pubblico?
«Quelle che io ho adottato sono state prezzi politici e concerti gratuiti, ma mi rendo conto di quanto sia più complesso per le istituzioni stabili. Penso che sia necessario portare la musica alle persone che a essa non si avvicinano mai. Spesso le stagioni musicali delle istituzioni più antiche e gloriose sono percepite quasi come club molto esclusivi o circuiti da cui ci si sente tagliati fuori. Come si sentirebbe un proletario a una festa sontuosa. Questo certamente intimorisce. Occorrono approcci diversi in luoghi diversi. Ricordo una Nona di Beethoven a Torino al Pala Isozaki: il biglietto d’ingresso era 3 euro, erano presenti 10000 persone. Molte delle quali uscirono da lì esterrefatte per la meravigliosa scoperta. Contribuire alla diffusione della musica è un dovere civico».
Come immagina il futuro di MiTo?
«Non posso immaginarlo. Penso sia nella testa dei politici di Torino e Milano che a breve si incontreranno per discutere una nuova strategia».
I suoi progetti futuri, invece?
«Continuare a scrivere e a studiare».
Cosa augura all’Italia musicale in genere?
«Vorrei che avesse buone scuole musicali, anche se diversi Conservatori funzionano bene. Ma occorrerebbe una presenza significativa della musica nelle scuole in genere. Non è possibile si terminino gli studi umanistici senza sapere nulla di Mozart e Bach. E mi auguro che il governo italiano mostri più attenzione alle istituzioni culturali, che proponga concorsi e continue verifiche. Il nostro è un capitale da accudire e lo facciamo poco nonostante siamo considerati uno tra i Paesi più evoluti». © Amadeus
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Alcune risposte sono illuminanti e vale davvero la pena di prenderle in considerazione.